VARESE – Roseo o non roseo? Il futuro del lavoro è una domanda aperta. A spiegarlo con chiarezza la professoressa Annamaria Simonazzi, docente di Economia a La Sapienza, intervenuta durante il terzo e ultimo incontro dedicato ai Gruppi merceologici dell’Unione degli Industriali della Provincia di Varese, che ha visto riunite in assise congiunta le imprese dei settori “Alimentari e bevande”, “Chimiche, farmaceutiche e conciarie”, “Gomma e materie plastiche”, “Cartarie, editoriali e poligrafiche”, “Materiali da costruzione, estrattive e cave”.
Non una visione pessimista, ma lucida quella della docente che ha analizzato gli scenari possibili all’interno dell’industria 4.0 e alla luce dei mutamenti che questa porta con sé, in un incontro dall’illuminante titolo “L’homo faber 4.0 all’interno dei mutamenti della cultura d’impresa. Verso quale futuro?” “Allo stato attuale il futuro del lavoro potrebbe essere non roseo, con una crescente polarizzazione, dovuta alle tecnologie, tra lavoratori qualificati e non, con relativa polarizzazione del reddito e intuibili conseguenze sociali, diseguaglianze, incertezza, populismo” ha spiegato Simonazzi. “E’, quindi, fondamentale che le imprese e le parti politiche e sociali facciano di questa sfida che si presenta una opportunità, imboccando la strada giusta e, soprattutto, collaborando tra loro, anche a livello internazionale.” Ma come si profila il cambiamento? “L’industria 4.0 – chiarisce la docente – descrive l’organizzazione di processi produttivi basati su tecnologie e dispositivi che comunicano autonomamente gli uni con gli altri lungo l’intera catena del valore. Il modello di fabbrica ‘intelligente’ del futuro comprende sistemi guidati da computer che monitorano i processi, che creano riproduzioni virtuali del mondo reale, che rendono possibile il decentramento delle decisioni sulla base di meccanismi di autoregolazione. Molte delle tecnologie che formano la base di industria 4.0 sono già utilizzate da tempo; la novità consiste nell’utilizzo integrato di queste, che porterà una trasformazione significativa: postazioni isolate verranno messe insieme in un flusso produttivo ottimizzato, automatizzato e integrato, determinando una maggiore efficienza e cambiando la natura e le modalità delle relazioni tra fornitori, produttori e clienti. Il digitale impatta sull’occupazione: aumenteranno le professioni, sia intellettuali che manuali, in cui l’uomo è ancora superiore alla macchina, diminuiranno quelle intermedie. Sono necessari dunque investimenti in formazione per l’acquisizione di nuove competenze”. Una necessità non omogenea in tutti i settori. “La necessità di aggiornare conoscenze e competenze dei lavoratori occupati si distribuisce in modo diversificato: i settori maggiormente interessati sono quelle dei servizi come istruzione, sanità e assistenza alle persone (47,8% delle imprese), comunicazione, attività finanziarie e altri servizi alle imprese (38,6%). Nell’industria: chimica, farmaceutica e plastica (37,7%), elettronica (36,9%), energia, acqua e rifiuti (35,3%) e metalmeccanica (34,4%). Fra il 2014 e il 2017 il fabbisogno manifestato dalle imprese è aumentato: +6,2% nei settori istruzione, sanità e servizi alle persone; +4,4% nella chimica e nella farmaceutica; +5% per le industrie alimentari e +3,9% nel settore metalmeccanico”.
Un problema di mancanza di tecnici, dunque, ma non solo. Sul banco di prova dell’industria 4.0 anche il problema della partecipazione femminile alle nuove dinamiche del lavoro. “Il dualismo attuale – spiega l’economista – si riscontra anche nelle questioni di genere, che andranno affrontate con lo stesso impegno: se la donna non viene messa in condizione di lavorare dovrà scegliere. Con sempre maggiore divario tra chi decide di lavorare e chi di dedicarsi alla famiglia. A livello culturale bisogna lavorare dalla scuola per far capire alle ragazze che ce la possono fare, ad esempio puntando sulle STEM: il dato di fatto è che le donne si impegnano di più ma rischiano meno”. Problemi aperti quindi. Ma le imprese sono consapevoli del cambiamento anche culturale che le nuove forme di lavoro impongono? “Le imprese grandi o le piccole giovani, quelle nate già in aura tech, per intenderci, sono consapevoli. Per il resto, anche qui esiste un dualismo: alcune tendono a ‘vivacchiare’ con la convinzione che basti acquistare macchinari per essere 4.0. In realtà, il problema è porsi le domande su cosa farci. Non sempre il passaggio c’è e il legislatore non si è posto la questione. Anche su questo occorrerà lavorare”. Oltre alla consapevolezza, urge capacità di coordinamento degli aspetti tecnologici e sociali del cambiamento e, soprattutto, spiega la docente: “serve una visione, cioè capacità di leggere, interpretare e governare il cambiamento”.