È trascorso almeno un quinquennio dall’ultima volta che ho visto In the Mood for Love, il film più bello di Wong Kar-wai, uno dei capolavori riconosciuti che sono apparsi sull’orizzonte cinematografico da quando è iniziato il Nuovo millennio.
Per chi non l’ha mai visto, per chi l’ha scoperto quanto aveva già ottenuto lo status di classico del cinema contemporaneo, per quanti ne rimasero folgorati quando era una novità assoluta e rivoluzionaria, questa è la breve storia di cosa è stato e cos’è oggi In the Mood for Love, uno dei film (sentimentali) migliori di tutti i tempi.
Anno 2000, inizio del Nuovo millennio: un passaggio epocale tanto atteso eppure in qualche modo deludente. Tutto dovrebbe essere diverso eppure quasi nulla cambia pelle con la stessa repentinità della data sul calendario; una smania che sarebbe andata scemando l’autunno successivo, quanto il tanto sospirato cambiamento epocale in grado di riscrivere tutto sarebbe arrivato.
In un clima impregnato di aspettativa sbarca il nuovo film di Wong Kar-wai. Non è così inconsueto vedere al cinema un film autoriale di provenienza asiatica in quegli anni: la cura Müller è ormai vicinissima, Venezia qualche anno più tardi consacrerà la febbre del cinema orientale, che s’imporrà con i suoi stilemi, il suo gusto estetico e i suoi divi tra i cinefili.
Eppure non mi fu così facile scovare una sala dove vedere il film più chiacchierato di Cannes. Un po’ perché sono ancora una giovane studentessa e Milano rimane fuori portata, un po’ perché i precedenti lavori di Kar-wai lì ho dovuti recuperare tutti in home video e – per gli inediti – con i primi, esasperanti sistemi di condivisione illegale di film.
Ci vorranno cinque mesi prima che riesca a vederlo in una vecchia sala di provincia, in una rassegna estiva. Nel frattempo ne ho letto ossessivamente sulle riviste di settore su cui sono riuscita a mettere le mani (CIAK, la prima e spesso unica risorsa dell’epoca, un numero di Duellanti scovato dopo lunghe ricerche in una emeroteca, qualche articolo dei quotidiani nazionali che allora era comunissimo trovare in giro per casa e abbandonati sui mezzi pubblici).
Nonostante quanto letto in giro e intuito su internet (dato che il mio inglese all’epoca era tutt’altro che affidabile), non sono minimamente preparata a In the Mood for Love: è un film come mai ne avevo visti prima, che certo ricordava le precedenti pellicole di Kar-wai ma che si spingeva un po’ più in là, con un tale equilibrio di malinconia, nostalgia, atmosfere orientali e suggestioni occidentali da risultare incredibile. Allora però non ho nemmeno la proprietà linguistica necessaria per articolare un giudizio che si spinga oltre un “è bellissimo, ma davvero bello da impazzire”.
Da quella prima visione alla successiva rischio di impazzire davvero: passeranno decine e decine di settimane, nella spasmodica attesa prima di una versione a noleggio e poi di un’edizione home video su cui finalmente riesco a mettere le mani. Ormai il 2001 sta per volgere al termine e io posso finalmente dedicarmi a guardare e riguardare con agio il film. Certo ci sono altre pellicole da intercettare (comincia a essermi chiaro che quando leggo Cannes da qualche parte, è meglio drizzare le antenne) e i classici da recuperare via consorzio bibliotecario, ma ormai In the Mood for Love viene aggiunto nella routine delle mie visioni cicliche, tanto che, visione dopo visione, finiscono per vederlo anche tutti i miei familiari. Mia madre lo soprannomina “il film della schiscetta”, colpita dalle lunghe scene in cui Maggie Cheung avvolta in uno dei suoi mille qipao va a comprarsi una zuppa al mercato locale.
È incredibile pensare che siano trascorsi 18 anni da quella visione, da quell’epoca e da quella me stessa.
Il cinema è stupefacente anche per questo, perché incarna al contempo la dimensione del ricordo e la nega. La memoria vive dentro di noi e – a differenza di quanto siamo portati a credere – muta insieme a chi la custodisce. Il massimo che può succedere a un film invece è che la pellicola s’ingiallisca.
In the Mood for Love è uguale a se stesso e proprio per questo motivo è completamente diverso da quando lo vidi nel 2001. Allora aveva la forza del film rivoluzionario, era il portabandiera di un cinema asiatico ruggente e di cui i cinefili e i festival europei subivano pesantemente la fascinazione. Proprio quest’estate durante un’intervista a Olivier Assayas (che prima di essere un regista e uno sceneggiatore è uno di quei cinefili dalla conoscenza enciclopedica) sono stata costretta a riflettere sulla parzialità di questa mia percezione: quella che per me e tanti altri fu una prima ondata di cinema asiatico, per i cinefili cresciuti con il sodalizio Gong Li / Zhang Yimou era almeno la seconda, per gente come Assayas fu la quarta o la quinta ondata di registi che riuscivano persino a dividere per generazioni, catalogate in complicate relazioni geopolitiche con la censura cinese, le aspirazioni indipendentiste di Hong Kong, la grande tradizione giapponese e il grande punto interrogativo che era allora la Corea. Allora non lo sapevamo, ma sarebbe stata l’ultima, per tutti noi.
In the Mood for Love oggi non ha perso un briciolo della sua bellezza e non è invecchiato – in senso negativo – di un giorno. Tuttavia nel 2018 brilla con la luce del classico che permette a chi c’era allora e a chi lo vede solo oggi di rivivere un mondo che nei fatti non esiste più. Il che è quasi paradossale, considerando che il film racconta gli ultimi anni d’oro di una Hong Kong che già a fine pellicola è scomparsa.
Wong Kar-wai, uno dei talenti prodigio che allora era impossibile non citare in ogni conversazione cinefila, non gira un film dal 2013 e non è raro discutere con giovani appassionati che non abbiano mai visto un suo film.
Tony Leung e Maggie Cheung erano i più cosmopoliti ed eleganti sex symbol del cinema orientale, oltre che ad essere attori capacissimi. Leung nel 2000 vinse come miglior attore a Cannes proprio per In the Mood for Love.
Erano però solo due dei tanti nomi che circolavano all’epoca: c’era l’eterna Gong Li, c’era la stella in incredibile ascesa di Zhang Ziyi, c’era la bellissima e poliedrica Faye Wong, per citare solo i nomi più gettonati e commerciali. Maggie Cheung non recita in una produzione degna di questo nome dal 2013, Tony Leung non si vede per festival con release internazionali da subito dopo, pur avendo lavorato entrambi in passato anche con grandi autori europei.
I festival stessi sono cambiati. Ormai le presenze orientali nelle grandi kermesse europee si contano sulle dita di una mano e si appoggiano alla storica cinematografica giapponese con Kore-eda, ai grandi registi cinesi più o meno dissidenti o ai talenti di genere esplosi poco dopo dal Sud Corea. Marco Müller non guida più la Biennale del Cinema ed è da tempo che qualcuno non scopre via festival un grande nome orientale: arrivano già svezzati e con zoccolo duro di fan al seguito, grazie al passaparola che sub, torrent e internet veloce sanno generare a livello globale.
Ad essere cambiati sono soprattutto gli equilibri cinematografici: l’estremo oriente non ha la vitalità di quell’epoca, mentre il sud America e l’Europa dell’est letteralmente ribollono. La Germania cinematografica è risorta, la Francia sembra inaffondabile sia sul fronte commerciale sia su quello autoriale. L’Italia tenta strade diverse, si affida a nuove voci. Persino Luca Guadagnino è riuscito a “farsi perdonare” un successo commerciale che aveva sancito la sua damnatio memoriae nel 2005.
A versare in condizioni non ottime è casomai il trampolino di lancio stesso del cinema autoriale, i festival, schiacciati dalla concorrenza fratricida del calendario sempre più fitto, dalla compressione dei tempi di sfruttamento dei film, dall’alternativa che il divano e lo streaming più o meno legale offrono alla sala, sempre più disertata e proprio dai cinefili. Sono proprio loro, siamo proprio noi che una volta eravamo costretti ad attese di mesi e di anni ad essere diventati i traditori più impazienti, a cui basta una release di una settimana antecedente al grande schermo per dire addio alla sala, anche se la ratio con cui è compresso lo screener è completamente sballata, anche se le pellicole “da vedere” con cui potremmo occupare quel lasso di tempo sono potenzialmente infinite.
Sono scomparsi anche tanti produttori e distributori importanti, sostituiti da altri di natura e scopi differenti. La strepitosa edizione homevideo di In The Mood For Love contiene più di 30 minuti di materiali inediti frutto del continuo, incessante lavoro di pulitura e limatura di Wong Kar-wai, un regista che in sala di montaggio crede che meno significhi meglio (altro dettaglio ormai scomparso e di cui si sente enormemente la mancanza). Il merito è di Andrea Occhipinti, un nome centrale per il successo di registi come Wong Kar-wai e Kim Ki-duk nel nostro Paese. All’epoca il logo di Cecchi Gori era una costante nella vita del cinefilo italiano, così come l’impero indipendente della Miramax dei Weinstein era nuovo, eccitante e rivoluzionario, almeno quanto lo è oggi quello di A24.
Macerie. Macerie su cui si erge bellissimo e perfetto un film che è sopravvissuto alle alterne fortune del suo creatore, dei suoi interpreti, dei suoi produttori, mecenati e distributori e dei cinefili che lo hanno adorato.
A rivederlo oggi In the Mood for Love non mi appare meno bello, ma ne colgo una complessità umana e produttiva che all’epoca semplicemente non avevo gli elementi per vedere: i set risicatissimi, le composizioni bellissime ma chiaramente frutto di un lavoro sapiente in fase di montaggio più che di una pianificazione millimetrica a monte. Centinaia di film e un’occupazione professionale in questo settore dopo vedo chiaramente come In the Mood for Love nasca dalle ceneri di un progetto diverso, scavato fuori da chissà quanto materiale estraneo.
In the Mood for Love è destinato a sopravviverci e a seppellire chissà cos’altro nei prossimi decenni: la fruizione in sala? La forma stessa del cinema, soppiantata dalla serialità? Il circuito festivaliero? La bidimensionalità e la non interattività delle vecchie pellicole?
Scomparisse anche l’originale per un rovescio di fortuna spaventoso, non verrebbe comunque cancellato dalle nostre esistente cinefile. Come influenza, inspirazione e plagio è già germogliato ovunque negli ultimi 20 anni, punto fermo nei discorsi e nel girato di una pletora di nuovi cineasti diversissimi tra loro. È nelle atmosfere di Assayas, è nell’emozione di Xavier Dolan, è in ogni voluta di fumo che si alza da un sigaretta e in ogni testa femminile che si appoggia alla spalla al suo fianco in un silenzioso viaggio in taxi.
In the Mood for Love dopo aver fatto la Storia del Cinema, ormai è diventato parte integrante di essa e da lì ci guarderà nei decenni e nei secoli a venire, fino a seppellirci tutti. In attesa che anche noi lo si guardi e si goda un po’ della sua perfetta immortalità.
A differenza del segreto del signor Chow e di quel ricordo che “poteva vedere sfocato e distante, come attraverso un vetro, ma non più toccare”, possiamo afferrarlo nella sua complessità e perfezione ogni volta che ci va, basta pigiare play.