Dall’ultima presentazione di un film di Nanni Moretti, tanto è cambiato nel mondo che ruota attorno al cinema: l’hashtag #MiaMadre per esempio è finito tra i trending topic italiani su Twitter, mentre i giornalisti romani coprivano di domande il regista e il cast e i colleghi milanesi seguivano l’evento in diretta streaming.
Mia Madre è un film intimista e per certi versi doloroso anche da vedere, che racconta il lutto di due fratelli (Moretti stesso e la protagonista Margherita Buy) di fronte al lento spegnersi della loro madre, una professoressa di Latino in pensione con sempre più gravosi problemi di salute, intepretata dall’attrice teatrale Giulia Lazzarini.
Il film, costato 7 milioni di euro, verrà distribuito in oltre 400 copie da giovedì.
Il film oltre a parlare di lutto e rapporti familiari sembra un atto d’amore verso una cultura che sta scomparendo: le scene sul latino, sui libri, sui cinema di provincia. È così?
NM – Non credo sia una cultura che stia scomparendo, insomma, non sarei così pessimista. Il latino in realtà fa parte del nucleo del film e del personaggio di Giulia.
GL-L’impressione di vedere gli scaffali vuoti e gli scatoloni è però stata forte per me. Io quel vuoto fisico l’ho sentito come più profondo di un vuoto “normale” di una scenografia.
Eri già partito con l’intenzione di dare la parte dell’attore istrione e un po’ folle a John Turturro e stare in disparte? Somiglia molto ad alcuni tuoi ruoli del passato il suo personaggio.
NM- No, non mi ci vedo, non sono per niente d’accordo. Ho sempre pensato che quella parte dovesse andare a un attore straniero. Come inadeguatezze invece mi ritrovo molto di più del personaggio di Margherita.
Quasi tutti penseranno a lei vedendo il personaggio della regista interpretato dalla Buy. Quanto è autobiografico il film?
Non saprei, di sicuro ci sono elementi della mia vita, ma non solo. Per esempio quando Turturro sul set dice “voglio tornare nella realtà”, ecco, è un frase che pronunciò Piccoli alla fine di una settimana per lui estenuante di riprese notturne per “Habemus Papa”.
Voglio però sottolineare che desideravo soprattutto che lo spettatore non capisse subito se la scena fosse reale, sogno o ricordo. Tutto questo spettro emotivo in Margherita convive simultaneamente, con la stessa urgenza.
Lazzarini come è finita dal teatro a un film di Moretti?
GL- Non avevo mai incontrato Nanni prima del provino, però ero molto amica di Luisa Rossi, la prima madre di Nanni in “Ecce Bombo”, quindi ho sempre pensato che avrei voluto lavorarci.
Facendo teatro non si può fare il cinema purtroppo, i tempi sono davvero troppo diversi. Poi però ci siamo incontrati io e Nanni nel suo ufficio e lui mi ha offerto un tè verde. Poi mi ha anche riaccompagnato a casa e quindi siamo passati davanti all’isola tiberina, dove si trova l’ospedale in cui è nato il figlio di Nanni. Da lì ha cominciato a raccontarmi il film e ho sentito che questa storia cominciava a germogliare dentro di me. Ho aspettato con fede una sua chiamata.
Nel primo giorno di lavorazione abbiamo fatto una scena in ospedale, un luogo molto freddo. Lui mi guidava poco, a piccoli passi, rifacendomi fare la scena di volta in volta, con calma.
Moretti, la tua interpretazione è asciutta, forse la prima di questo tipo della tua carriera. Nel vedere il film e sentire il tormentone di “stare accanto al personaggio” mi sono chiesto: perché prendi in giro Brecht?
NM- Io prendo in giro me, che è una cosa molto più faticosa. Quella frase la dico realmente agli attori, li esordo a “stare accanto al personaggio”. Margherita è un’attrice in grado di farlo: quando s’incazza, non è che urla e basta, no, riesce anche a trasmettere dolore e paura. Non so se riesco a spiegarlo agli attori a parole, spero che nei fatti si vedano i risultati.
Buy, come hai lavorato sul personaggio, che tutti percepiscono come un alter ego di Moretti?
MB- Mi è stato consegnato qualcosa di personale, con calma e pazienza non mi sono fatta troppi problemi e l’ho fatto mio. Mi è piaciuto moltissimo sgridare gli attori, quello sì (ride)! Anche dare lo “stooop!” alla scena, una parola ha un potere incredibile.
Insieme a “La stanza del figlio” e “caos calmo”, “Mia madre” chiude una specie di sua trilogia del lutto? O semplicemente riflette molto su questo sentimento, un po’ fuori dai racconti classici del cinema?
NM-Certo a 20 anni non mi sarebbe mai venuto in mente di dirigere questi tre film, ma invecchiando si pensa di più alla morte, si hanno esperienze di questo genere. Io però non riesco a mettere insieme questi tre film che cita, a vederli come un unicum.
“Mia madre” mette al centro valori veri, familiari, che accompagnano l’individuo fino alla morte. Tutte le madre accompagnano i figli: quanto sua madre professoressa l’ha influenzata rispetto all’arte di fare cinema?
NM- Mia madre e mio padre c’entravano nulla con il lavoro del cinema, si solo “limitati”, quando io ho finito le scuole e ho deciso a provare questa strada, a sostenermi con discrezione, affetto e silenzio.
Mi imbarazza un po’ parlare di mia madre, ma c’erano generazioni e generazioni di alunni che continuavano a frequentarla, cosa che a me non è mai successa come studente, con rapporti simili a quelli mostrati nella parte finale del film.
Margherita fa Moretti, però il film che dirige sull’occupazione di una fabbrica in difficoltà non è “morettiano”: perché questa scelta di inserire come cornice un “film medio”?
NM- Volevo che ci fosse uno stacco tra la sua vita privata e lavorativa: Margherita pensa sempre ad altro mentre fa le varie attività quotidiane: alla madre sul lavoro, alla figlia mentre è con la madre, al lavoro mentre sta con la figlia. Volevo che per contrasto ci fosse un film molto solido e strutturato alle sue spalle.
Perché non ha interpretato direttamente lei il personaggio di Margherita?
NM- In verità è già da un po’ che non sono più il centro dei miei film e lo dico felicemente. Non ho mai pensato di farlo io il protagonista.
Mettere in scena se stesso e le sue nevrosi nei film migliora la sua vita o la peggiora?
NM- Né l’uno né l’altro, questo è semplicemente il mio modo di raccontare.
John Turturro ricorda la prima parte della sua carriera, il personaggio di Margherita la seconda. Quanto “Mia madre” è un punto d’arrivo, quanto c’è del Nanni Moretti che verrà?
NM- Non ne ho idea, sono molto lento a lavorare sui miei copioni rispetto ad altri colleghi. Per me l’unico punto d’arrivo è la semplicità, che non è né spontaneità né altro, bisogna lavorare molto per ottenerla.
Riguardo al Festival di Cannes, la lista dei film in gara si saprà giovedì. Lei accetterebbe anche di stare fuori concorso?
NM- Io da Cannes accetto tutto.
Come avete lavorato sulla sceneggiatura? Alcune scene sono nate spontaneamente?
Valia Santella -Abbiamo lavorato molto tempo sul trattamento, il passaggio tra la prima idea e la sceneggiatura finale. Pochi registi lo fanno, ma io lo trovo fondamentale, perché quando lo fai tutto il percorso del film l’hai già pensato e la fase di scrittura vera e propria risulta più veloce e fluida. Non ci sono stati grandi cambiamenti sul set, solo qualche improvvisazione di Turturro.
NM- Turturro ha aggiunto qualche novità in maniera appropriata. Margherita e Toni Laudadio, il produttore, hanno per fortuna saputo tener testa alle sue improvvisazioni.
Lei si sente veramente inadeguato come Margherita?
NM- Il senso del disagio è qualcosa che conosco bene, non solo in pubblico. Pensavo che con gli anni avrei sviluppato una certa capacità di gestirlo, invece mi accorgo che succede un po’ il contrario. Non è riposante, ecco.
Crescendo è più facile mantenere una lucidità nella lavorazione di film così privati e dolorosi?
NM- Mah, i dubbi, le insicurezze, le angosce, i ripensamenti, sono gli stessi di trenta, quarant’anni fa. Sul tema del film, io penso che quando si fa un lungometraggio, anche se il tema è forte, ci si concentra sui vari bisogni di lavorazione e non ci si fa investire dal privato.
Riguardo all’attacco verbale che Vittorio fa a Margherita, lei si riconosce anche in quelle critiche?
NM- il gioco dello specchiarsi c’è anche in quelle sequenze. Insomma, a volte parlo a me stesso, come nella scena della fila davanti al Capranichetta.
Stavolta hai usato solo musiche di repertorio, fatto abbastanza inconsueto per un tuo film. Quando hai preso questa decisione?
NM- Alle volte succede, come per “Aprile” e per il primo episodio di “Caro Diario”. La musica per la scena del motorino me l’ha suggerita Valia e altre le ho scelte insieme al montatore in sala montaggio, che è il momento in cui penso alla colonna sonora.
Citando una frase del film, pensi di aver rotto qualcuno dei tuoi duecento schemi?
NM-Sono la persona meno indicata a rispondere. Sono gli altri a doverlo dire, forse sì con la mia intepretazione “asciutta”? (ride) Se si può considerare una rottura, beh, non sono andato fuori budget. Rispetto alle ultime pellicole, è stata una bella differenza.